Degioanni Pietro

Degioanni Pietro

Degioanni Pietro – “Pensavo che fumare mi facesse bene!”

Noi Degioanni siamo di Festiona, località all’ingresso della Valle Stura, ben conosciuta dagli appassionati dello sci di fondo. Non l’ho mai praticato, questo sport. A me è sempre piaciuto da matti andare per boschi, portandomi la falce per ripulirli e fare legna.

Siamo gente di Festiona, però io sono nato a Gassin, in Francia, nel 1925. Mia madre era incinta di me quando seguì mio padre, trasferitosi là per lavoro. E probabilmente ora sarei più francese che italiano, se mio nonno, rimasto vedovo, non si fosse rifiutato di raggiungerci. Mio padre fu allora costretto ad abbandonare il progetto di un’impresa edile, che avrebbe coinvolto me e mio fratello, e tornammo a Festiona. In Francia avevo completato il ciclo elementare. A scuola e fuori parlavo il francese (lo parlo ancora oggi senza difficoltà), in casa il piemontese, per la precisione il dialetto di Festiona, che è occitano.

Di qua mi fecero fare ancora 5 anni: in uno, cosa pensavate? Non perché la licenza francese non fosse riconosciuta, ma per ragioni didattiche. Mi fu assegnato il posto all’ultimo banco, da solo. Le maestre erano suore di Milano molto buone, che mi presero in grazia. All’inizio i compagni in tono di scherno mi chiamavano “il francese”, sapete com’è tra bambini. Ma poi mi integrai, e per tutti diventai “Pierino”. Un diminutivo affettuoso, in contraddizione con la corporatura che ho sempre avuto (e ho ancora): quando venni al mondo pesavo 5 kg! Un bel fardello, per mia madre. Come in ogni piccolo paese, era una classe mista, e tra i “primini” c’era una bambina che un giorno sarebbe diventata mia moglie. E il bello è che oggi in quella scuola insegna nostra figlia. Abbiamo anche un figlio. Ci hanno dato tre nipoti a testa.

Trascorso quell’ultimo anno scolastico, venne da sé che aiutassi mio padre nella campagna e nei lavoretti da muratore che di tanto in tanto amici e parenti gli commissionavano. Così ho fatto fino a quando l’età me lo ha permesso: ho sempre avuto una grande forza di volontà, sono sempre stato indaffarato. Non concepivo una giornata senza fatica. I compaesani si stupivano nel non vedermi mai inoperoso.

A 17 anni mi buscai una brutta polmonite. All’epoca non essendoci gli antibiotici, me la curarono con lo sciroppo e “i papin”, un panno con della crusca scaldato nel forno di una stufa a legna, ricambiato di continuo. Anche mia moglie da giovane si ammalò di polmonite. Un’altra esperienza in comune. Era destino che ci sposassimo. In più di lei, ovvio, ho fatto il militare: alpino ad Alessandria.

È in quegli anni che cominciai a fumare, e tanto: due pacchetti di nazionali al giorno. Col tempo divenni anche un buon bevitore (di vino), a pasto e nelle feste.

Mia moglie era contraria che fumassi, invano provò a convincermi di smettere. Stava sempre lì a ricordarmi che i soldi destinati alle sigarette avremmo potuto spenderli in cose più utili, più importanti. Più sane. Parole sagge, le sue, ma non c’è miglior sordo di chi ha il vizio del fumo. Mi avessero fatto smettere con la forza, credo proprio che mi sarei ammalato: non resistevo senza! Sarebbe stato come togliermi l’aria. Con gli anni passai alle cartine, poi alla pipa.

All’inizio del ’98 cominciai a sputare sangue misto a catarro. Subito non dissi nulla a mia moglie e non diedi importanza alla cosa, per quanto di per sé insolita, inquietante. Ma sapete come sono le mogli: notano tutto e non gli sfugge niente. E sono maestre nell’architettare piani segreti. A mia insaputa fece venire a casa nostra il medico di famiglia, il dottor Corrado Camilla, di modo che così non avrei potuto sottrarmi alla visita. Particolare curioso: io da lui ci sarei andato col trattore, perché non ho mai preso la patente della macchina. Il dottore Camilla disse di non perdere tempo e di andare a Cuneo, dove mi fecero una TAC che rivelò una macchia al polmone destro. Dovevo essere operato d’urgenza. Si trattava di un cancro del polmone. Certezze non ce n’erano: non ce ne sono mai, in questi casi. Il chirurgo, il dottor Quaranta, mi disse che avrebbe fatto tutto il possibile: parlò come un caro amico. Per tanti anni a Natale ci siamo spediti i biglietti di auguri.

Alla notizia che bisognava operarmi, mi demoralizzai un poco. Ma poi mi risollevai ed entrai fiducioso in sala operatoria. E sapete perché? Non indovinereste mai…

Perché credevo di poter poi tornare a fumare! Un pensiero che più balzano non si può, lo so, ma quello covava nella mia testa! Sì, avete letto bene: il mio desiderio era di levare il male per poi farmelo rivenire! Il dottor Quaranta mi aiutò a liberarmi da quel proposito assurdo e nocivo. Mia moglie gli sarà per sempre grata. E anch’io, naturalmente, sebbene all’inizio sia stata dura non rispondere al canto di quella sirena che è la sigaretta.

Fui operato il 22 maggio 1998: lobectomia inferiore destra. Il 2 luglio cominciai i controlli clinici all’ospedale Carle, dai dottori Buccheri e Ferrigno, che fino ad ora mi hanno sempre congedato in maniera confortante. Tre anni dopo mi ammalai di bronchite asmatica: devo riconoscere che l’apparato respiratorio è il mio tallone d’Achille, e certo io non ho mai fatto nulla per proteggerlo.

Dopo l’intervento al polmone me ne sono stato per diversi mesi tranquillo e prudente, evitando di fare sforzi o di affaticarmi. Fino alla fine di quell’estate 1998, ero solito mettermi comodo sotto il portico di casa per leggere il giornale. Ma cosa dico leggere: divorarlo, riga per riga. Il tempo a disposizione non mi mancava.

Così come non mi mancava l’appetito. Già dall’estate seguente ripresi a girovagare per gli amati boschi, spesso e volentieri accompagnato dai nipoti. Per tanti anni sono stato il piromane della mia salute. Mi hanno beccato prima che la incenerissi del tutto.

 

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