Aquilini Maria Pia

Aquilini Maria Pia

Aquilini Maria Pia
“Una maestra a lezione di cancro”

Ero stata maestra elementare. Quando in classe di maestra ce n’era una soltanto. Quando i bambini avevano un solo riferimento. Da pensionata, nell’arco di quasi un decennio mi è successo di tornarci io tra i banchi, i banchi di una scuola particolare. Tre corsi mi è toccato seguire, con altrettanti esami da superare. Ostica al limite dell’impossibile la materia: il cancro. Ero quindi finita in una sezione famigerata, dove alto, purtroppo, resta il tasso di bocciatura. Tre cancri, il secondo al polmone: roba da conferirmi una laurea honoris causa.

Tanto più che laureata non sono: ai miei tempi, nel campo dell’istruzione di base non c’era bisogno di esserlo. Dopo il diploma magistrale, e due anni come telefonista presso la STIPEL (poi SIP, oggi TELECOM), diedi e superai il concorso. La mia fu una vocazione. Se manca quella, meglio cambiare lavoro. Però non ero la maestrina dalla penna rossa di De Amicis, l’autore di “Cuore”. Seguivo ogni alunno con grande premura, attenta alle sue eventuali difficoltà, che qualche volta celavano problemi di altro tipo. Ci tenevo a che tutti, chi subito chi dopo, raggiungessero lo stesso livello di preparazione. Un anno rinunciai al trasferimento per portare una classe fino in V. Avevo preso quei bambini dall’inizio ed ero in dovere di accompagnarli fino alla fine del percorso. Per 19 anni insegnai in diverse vallate della provincia e nei paesini di campagna, poi mi assegnarono la cattedra a Cuneo, mia città natale e di vita (ma mio padre è di origine abruzzese). Mi hanno voluto bene, i miei tantissimi alunni. Ancora oggi mi ricordano con stima e affetto. E anch’io ho imparato tanto da loro. Andai in pensione nel ’92, insieme a una collega. A malincuore: non avrei mai smesso. Solo che tirava una brutta aria. I miei 35 anni di contributi li avevo maturati: due come telefonista più 33 come maestra. Ero lì per ripensarci, ma la mia collega, più volitiva, me lo proibì.

Quando conobbi mio marito, era il periodo che insegnavo a Monsola di Villafalletto. In prossimità del Natale, con un’amica e collega andai a Torino. A un certo punto ci perdemmo. La mia amica indicò un tipo: “Chiediamo informazione a quel terrone”. Disse così perché era scuro di carnagione. L’informazione si trasformò in conversazione: un ragazzo certe occasioni mica se le lascia scappare. Io ero più distaccata: malgrado fosse tutto sommato un bel giovanotto, non mi aveva colpita. La mia amica, invece, gli dava corda. Non appena lo salutammo, quasi la rimproverai: “Tu sei pazza! Non dovevi dirgli dove lavoriamo”. Mi rispose con un sorriso beffardo: “Tranquilla, gli ho dato indicazioni sbagliate. Mai più riuscirebbe a rintracciarci. Si perderebbe tra le campagne”. L’indomani ce lo vedemmo arrivare a scuola! Aveva preso il treno fino a Savigliano, poi chiesto informazioni. Non avrei scommesso una lira. Un anno e mezzo dopo io e lui ci sposammo. Quarant’anni dopo lo siamo ancora. Mario è umbro, pertanto si ritiene più settentrionale di me. Prima di andare in pensione, lavorava nelle Ferrovie dello Stato.

Abbiamo sempre fatto una vita tranquilla: le scampagnate, i fine settimana o i soggiorni d’estate nella nostra casa a Valdieri in Valle Gesso (mia madre era di lì), qualche volta la tirata in macchina fino a Spello, in Umbria, dalla famiglia di Mario. Ho anche viaggiato in aereo, ma senza mio marito (lui ha paura). Abbiamo due televisori, così lui può guardarsi lo sport (tifa per la Fiorentina) ed io le trasmissioni su politica e società tipo Ballarò o quella nuova di Santoro. Insieme guardiamo i vecchi film di Don Camillo e Peppone: ironici, leggeri, garbati, rilassanti, rassicuranti. Requisiti che la tv di oggi non ha più.

Abbiamo una figlia, Anna Maria, avvocato alla Provincia, che (per adesso) ci ha dato la grande gioia di una nipotina: Sofia. A loro donerò i quattro quaderni che ho riempito con la storia della mia vita, dove parlo anche dell’esperienza della guerra: i nostri giovani sono assuefatti alla parola e alle immagini, ma non sanno cosa sia veramente. L’ultima parte è incentrata soprattutto sulle mie traversie di salute, e di quelle passo ora a raccontare.

Tre anni dopo aver lasciato la scuola, cominciai ad avere delle perdite. Ci vollero otto mesi prima di giungere ad una diagnosi definitiva. Ero andata da un ginecologo: per lui bisognava procedere al raschiamento. Un’amica ostetrica mi consigliò di aspettare: “Il raschiamento no. Fatti visitare da un altro ginecologo”. Quest’altro optò per una biopsia. E dall’analisi del campione di tessuto, venne fuori che avevo un tumore dell’utero. Senza nessuna garanzia, fui operata nel luglio del ’96. Seguirono 33 sedute settimanali di radioterapia, che mi davano dei disturbi intestinali. A ciclo finito, non c’erano più residui.

Tuttavia, non mi ristabilii completamente. Era come se qualcosa mi impedisse di stare bene. Un qualcosa di non ben definito, ma reale. A gennaio del 2000 si verificò il primo caso di emoftoe, il sangue misto a saliva. Un sintomo all’inizio sporadico, ma che poi arrivò quasi a strozzarmi. Anche stavolta ne passò di tempo prima che si capisse a cos’era riconducibile. Avevo comprato l’umidificatore perché fu un inverno secco, ma non servì a nulla. Sulle prime si pensò trattarsi di varici in gola, salvo poi dirmi che avevo la gola di una diciannovenne. Misera consolazione: il sintomo persisteva. Alla vista del sangue mi spaventavo, e cominciavo a deprimermi. Ci metto niente a buttarmi giù (e a risollevarmi). Sono apprensiva, influenzabile dagli eventi.

Mi recai all’ospedale Carle, e lì feci i seguenti esami: i raggi, la visita otorinolaringoiatrica, la TAC e la gastroscopia. Che sequenza! Non emerse nulla, tutto sembrava incredibilmente a posto. Allora alla sequenza aggiunsero la broncoscopia. Quando gli esiti furono pronti, il dottor Barberis chiamò mia figlia nel suo studio e, quasi con le lacrime agli occhi, ché era (ed è ancora) una persona molto sensibile e di gran tatto, le disse testuali parole: “Cara, è un brutto pasticcio”. C’era una macchia al polmone sinistro. La causa resterà sempre un mistero: non ho mai fumato né bevuto. Io aspettavo fuori. Anna Maria uscì sorridendo, ma capii all’istante che quel sorriso mascherava l’angoscia: la mamma è la mamma. Mi dispiaceva che soffrisse, mi sentivo in colpa. Mi faceva male l’idea che potesse magari pensare alle sue amiche le cui mamme, invece, stavano bene. Mi rendo conto che fosse uno stato d’animo ingiustificato, assurdo: non ci si ammala apposta di cancro del polmone. Ma nemmeno si può cambiare la propria natura.

Anna Maria è diversa da me. Ha un carattere chiuso, mentre io sono ciarliera, mi piace parlare (sennò come avrei fatto ad insegnare ai bambini?). Come mio marito, mi è stata sempre vicina. Prendeva ferie quando avevo la seduta di chemioterapia, e siccome tra l’esame del sangue e l’inizio della seduta c’era un intervallo di circa due ore, mi portava al mercato a Caraglio, e lì facevamo un’abbondante colazione e poi due passi tra i banchi degli ambulanti.

La chemioterapia mi rendeva debole, come se avessi un’influenza perenne. Ma fu efficace. Feci un’altra broncoscopia, poi i medici ritennero che ero finalmente pronta per l’intervento, eseguito il 6 dicembre 2000: una lobectomia inferiore sinistra (l’asportazione del lobo). Stavolta ero fiduciosa. I miei famigliari, solo speranzosi. Era stato il chirurgo, il dottor Ratto, a farmi una bella iniezione di fiducia, preferibile alla speranza perché più vicina alla certezza. L’incoraggiamento dei medici è importante. Non devono illudere il paziente, ma incoraggiarlo sì. Il paziente sceglie allora di non arrendersi, sceglie la lotta se sa che non sarà inutile.

Mi ripresi abbastanza in fretta. Due giorni dopo l’operazione, già andavo in bagno da sola per lavarmi. Una cugina esclamò: “Cavolo quanto sei ginnica!”.

Alle visite di controllo risultava sempre tutto in regola. I dottori Buccheri e Ferrigno erano scrupolosi e affabili. Riacquistai appetito. (Però non mangio carne: non perché sia vegetariana, ma per la pena che mi fanno gli animali quando vengono ammazzati. Sofia mi somiglia: mangia frutta, verdura, formaggi e i dolcetti, ovviamente, ma non tocca la carne). Col tempo presi qualche chilo, ma credo sia normale per una donna che veleggia verso i 70 anni. La pancia, ecco la pancia: era sempre un po’ gonfia. Il controllo dell’agosto 2004 rilevò che un marker (un valore del sangue), per la precisione il CA125, era fuori di qualche punto. Fu necessaria una TAC. Il dottor Buccheri mi disse: “Va bene, stia tranquilla. Però la ripetiamo tra tre mesi”. Tre mesi dopo, quel marker era schizzato a 300 e passa, un parametro altissimo. Anziché la TAC mi fecero la PET. Fui anche colpita da flebiti. Il dottor Borghi, primario, uno di poche parole ma in gamba, decise per una biopsia: speravano si trattasse soltanto di aderenze nella zona intestinale. Invece no, la speranza non venne confermata. Il cancro aveva rispettato il detto che “non c’è il due senza il tre”. Stavolta aveva mirato al peritoneo (la fascia che avvolge e ricopre l’intestino, per intendersi).

La chemioterapia fu molto più forte della precedente. Mi procurava un malessere generale e dolori articolari. Da allora, sono meteoropatica. Inevitabilmente, il morale precipitò. Mi rifiutavo di mangiare: Mario mi veniva appresso per la casa con il piatto in mano. Le sedute furono in tutto sei. In seguito persi tutti i capelli, ma non ne feci un cruccio. Niente parrucca, un foulard e via. La prima volta non li avevo persi. Poi ricrebbero, più belli di prima, perfino ricci.

Nel settembre 2005 mi sottoposi a un’altra PET. Lessi l’inizio dell’esito: “Non residuo di malattia…” (ho una memoria di ferro, sennò come avrei potuto fare scuola?). Non proseguii oltre. Mi bastava. Non ho mai voluto saperne di cartelle cliniche e referti. Se n’è sempre occupato mio marito. È lui a conoscere la data del prossimo controllo: quando il giorno si avvicina, comincia a prepararmi psicologicamente, dapprima accennando la cosa, ricordandomela con quel tono vago e distratto che si riserva alle scadenze di poco conto. Non facesse così, alla visita dovrebbe portarmi di peso. Se mi capita di passare davanti a un ospedale, giro la testa dall’altra. Anche le cure sono sempre stata tentata di non farle. La seconda chemioterapia mi ha lasciato un disturbo ai piedi, come intorpiditi. Mi si dice che passerà anche stavolta (il problema si era già ripresentato dopo la prima chemio, in maniera più leggera e temporanea). In ogni caso, sono grata al dottor Numico che ha trovato la terapia giusta per me e ha preso a cuore il mio caso.

Quando ho letto l’esito (“Non residuo di malattia….”), ho pensato ai medici, ma anche ai miei santi. Ho molta fede. Partecipo a un gruppo di preghiera a Cuneo, e durante il mio calvario, tramite un’amica, anche un analogo gruppo di Genova ha pregato tanto perché ce la facessi. Le preghiere altrui sono come i suggerimenti. Sebbene sia un’ex maestra, li tollero (e li invoco, e li do a mia volta). Purché sia in gioco la salute dell’interrogato.

Il commento del dott. Buccheri

C’è sempre qualcosa che sfugge ad ogni ragionevole previsione, anche quando tale previsione si basa su un’esperienza più che decennale ed è formulata sulla conoscenza della letteratura scientifica dell’argomento. Ed il caso della Sig.ra Aquilini ha dell’incredibile. La signora giunse alla nostra osservazione nell’estate del 2000, in ancora ottime condizioni generali, ma con una situazione clinica già molto pesante: un pregresso adenocarcinoma uterino (diagnosticato quattro anni prima) e un nuovo adenocarcinoma a partenza dal bronco lobare inferiore di sinistra che aveva già dato un interessamento di un foglietto protettivo del cuore (il pericardio) e di alcune ghiandole linfatiche del mediastino. Tecnicamente era un T4N2M0: inoperabilità assoluta. Cominciammo una chemioterapia (piuttosto pesante perché a quel tempo non erano ancora disponibili tutti quei farmaci, meno tossici, che si usano normalmente oggi) e pensavamo di concluderla con un po’ di radioterapia toracica: più di così non si poteva fare.. Invece, fummo sorpresi da una splendida risposta alla chemioterapia che ci invogliò a proporre l’intervento. L’intervento di lobectomia inferiore con plastica bronchiale (stadio patologico: T2N0) fu in effetti eseguito il 6/12/2000. Tutto andò bene fino al 2004, quando, nel corso di un controllo clinico routinario, si osservò un incremento significativo di un marcatore tumorale, il CA125. Per inciso, il CA125 è molto utilizzato anche dai ginecologi per seguire i tumori dell’ovaio e quelli ginecologici in genere. Ed in effetti, gli accertamenti che seguirono dimostrarono una recidiva pelvica del primitivo tumore uterino. Un po’ sfiduciati e assai perplessi, non potemmo che affidare la paziente ai nostri colleghi. Ma questi ci sorpresero piacevolmente, ripetendo (anzi, migliorando) il nostro piccolo miracolo: nuova chemioterapia e nuova regressione (questa volta completa) del tumore. Da allora, niente più cure: solo controlli da loro e da noi, che la Sig.ra Aquilini continua a superare con successo. Viva, Sig.ra Aquilini!

 

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