Cometto Giovanni – Tira e molla con la sigaretta
Lavoravo all’ENEL, operaio. Nel 1991, raggiunti i requisiti, andai in pensione. Mia moglie è casalinga: prima di diventare mamma, aveva fatto la commessa. Alla epoca, i nostri due figli, un maschio e una femmina, erano studenti. Come si dice, era cominciata una nuova fase della vita, ma, tempo libero a parte, nella sostanza non molto diversa da quando ero la cosiddetta “forza lavoro”: sono sempre stato un tipo tranquillo, legato alle abitudini e al posto dove vivo, senza particolari hobby o interessi. In gioventù suonavo la fisarmonica in un complesso che si esibiva nelle balere. Ma non è frequentando questi ambienti che ho conosciuto mia moglie.
In verità, qualcosa di particolare ce l’avevo: il rapporto con la sigaretta. Non avevo propriamente il vizio del fumo. Potevo, o meglio, avrei potuto farne tranquillamente a meno. Mai avuto crisi di astinenza da nicotina. Succedeva che fumavo e dopo un po’ di tempo smettevo. Ricominciavo, smettevo di nuovo, poi ricominciavo un’altra volta. Sempre così. Questo curioso (e dannoso) tira e molla è andato avanti per cinquant’anni. La mia prima sigaretta l’avrò fumata a 16-18 anni. Con precisione non ricordo, comunque in quegli anni lì, quando si comincia a uscire. Quando si comincia a sentirsi grandi. Magari partivo da una sigaretta offertami da un amico, poi passavo a due, tre… In sei mesi arrivavo a mezzo pacchetto, anche. A quel punto la misura era colma: alito cattivo, leggero capogiro, un senso di malessere. Allora per il disgusto la mollavo, la “bionda”. Ma poi tornavo da lei, con questo mio approccio timido e graduale. Strana, la psicologia umana. Ma la fisiologia del nostro corpo non è tanto più logica, tanto più prevedibile.
Nel dicembre del 1996 feci una radiografia al torace, perché una lieve tachicardia mi provocava una stanchezza strisciante. Secondo il cardiologo, il mio cuore era perfettamente a posto. Invece il radiologo notò una piccola macchia nella parte superiore del polmone sinistro, un’entità da non sottovalutare. Mi hanno così indirizzato all’ospedale Carle, sempre a Cuneo, dove venni ricoverato due o tre giorni per sottopormi a un check-up completo: una TAC, due o tre broncoscopie, varie radiografie. Come è facile immaginare, questa situazione inquietava me e la mia famiglia. Toccò al dottor Buccheri comunicarmi l’esito di questa sequenza di esami: carcinoide tipico. Si tratta di una forma di cancro del polmone di solito benigno, che tendenzialmente non da metastasi e può essere eliminato con la sola rimozione chirurgica. La notizia mi impressionò. Poteva essere peggiore, è vero, ma quando sai che dovrai finire sotto i ferri ti preoccupi, perché non sai come andrà a finire. La famiglia, però, mi fu di grande sostegno. Secondo me, è meglio sapere subito come stanno le cose. Meglio essere informati della verità. E per intero, non solo in parte. È stupido rimanere nell’ignoranza, o fingere, illudersi, se poi tanto ci si rende conto sulla propria pelle che c’è un problema serio. Lo dico malgrado la fortuna di non aver conosciuto la sofferenza fisica. Infatti, nel complesso non stavo peggio di prima che mi fosse riscontrata questa macchia nera. Un altro aspetto insolito della mia vita, come il rapporto con la sigaretta.
Un giorno, c’era anche mio figlio, facendo anticamera per una visita mi misi a chiacchierare con un altro paziente. Lo conoscevo di vista. Ci raccontammo le rispettive situazioni, e lui, nell’apprendere che dovevo sottopormi all’intervento, mi consigliò caldamente di farlo a Genova: “Là sono all’avanguardia”, disse col tono di chi sa quello che dice. Parlava per esperienza personale, tessendo l’elogio di un chirurgo, un certo prof. Motta. Subito rimasi perplesso: l’idea di andare a Genova non mi entusiasmava affatto. Non amo spostarmi, viaggiare. Ma i figli cominciarono a ripetermi che Genova era vicina e il motivo per andarci importante. Vitale. Dal canto loro, i dottori Buccheri e Ferrigno approvarono questa possibilità, confermando i giudizi dell’altro paziente. E allora mi convinsi. Il 28 gennaio 1997 varcai la soglia della Clinica Universitaria del San Martino di Genova. Il 5 febbraio entrai in sala operatoria. Certe date non si dimenticano. Il prof. Motta si stupì per l’assenza di sintomi, tutti rimasero stupiti. Ma dopo aver visionato attentamente il mio quadro clinico, e avermi sottoposto ad ulteriori controlli, fu più che sicuro che l’operazione avrebbe risolto il problema una volta per tutte. Alla vigilia ero quindi un po’ più tranquillo e fiducioso. Mi sottoposero una “Sleeve lobectomy superiore sinistra”, cioè asportazione del lobo superiore sinistro, più plastica bronchiale. Un intervento perfettamente riuscito. E dall’impatto contenuto: non fossi andato a Genova, mi avrebbero asportato il polmone intero. Si vive anche con uno solo, certo, ma chiunque converrà che ci passa una bella differenza dall’avere anche l’altro, sebbene incompleto. Nei giorni successivi mangiavo e riposavo abbastanza regolarmente. Ovvio, avvertivo un po’ di dolore nella zona interessata dal bisturi. Ancora oggi certi movimenti mi procurano un po’ di fastidio. Sin da subito mi dissero di fare un po’ di tutto per riacquistare la piena funzionalità del braccio e della spalla di sinistra. Per ragioni cautelative, il mio soggiorno genovese durò fino alla fine di febbraio.
La TAC al Carle a un anno dall’intervento diede esito negativo. Io e la mia famiglia ci insospettimmo soltanto quando i valori di un marker, uno specifico esame del sangue, risultarono un po’ fuori dai parametri. Dopo 15-20 giorni, però, rientrarono nella norma. Ci venne spiegato che la causa può essere un raffreddore, o qualche linea di febbre, o una costipazione, o un ascesso. Nei primi due anni i controlli furono trimestrali. Poi sono diventati semestrali. Dal 2001 sono annuali, una cosa ormai di routine. Dei medici che si sono occupati di me non posso che avere grande stima.
Come ho già detto, viaggiare non fa per me, perciò nostro figlio, ingegnere informatico trasferitosi in California, lo vediamo solo quando viene lui da noi. Ci sentiamo spesso, quello sì. Nostra figlia invece è rimasta nei paraggi, ed è impiegata alla Provincia. Oggi trascorro le giornate guardando la televisione, più che altro i notiziari, e facendo delle passeggiate. Non gioco a carte, né a bocce. Mi manca proprio il senso della competizione. Eppure, ironia del destino, mi sono trovato a giocare contro un avversario temibilissimo, vincendolo abbastanza agevolmente e in tempi rapidi. Non ho meriti. Solo, la fortuna di averlo snidato per tempo.
Il commento del dott. Buccheri
Il carcinoide tipico è una rara forma tumorale, costituendo non più del 2% dei casi di tumore del polmone. E’ classificata fra le poche forme tumorali benigne del polmone, anche se, crescendo in loco, può dare problemi di compressione sulle strutture anatomiche vicine o può recidivare dopo asportazione chirurgica. E’ del tutto eccezionale, ma può capitare, che un carcinoide tipico si trasformi, col tempo, in una forma tumorale francamente maligna ed aggressiva, come può essere un carcinoma neuroendocrino o addirittura un microcitoma. Per questo, una volta fatta la diagnosi, si preferisce, comunque, asportare chirurgicamente la lesione. Più spesso, però, si arriva ad ottenere la diagnosi di carcinoide tipico, solo dopo l’intervento chirurgico, fatto per asportare una lesione sospetta cancerosa che, all’esame istologico definitivo, risulta essere molto meno grave di quanto inizialmente temuto. Nel caso del Sig. Cometto, potemmo giungere alla diagnosi di carcinoide già nella fase preoperatoria e consigliammo l’intervento per garantirci la certezza della guarigione. Guarigione che poi si è puntualmente realizzata.